
Ci sono storie che arrivano piano. Non fanno rumore, non reclamano spazio, non urlano il proprio dolore. Eppure si insinuano sotto pelle, silenziosamente, come una melodia lontana, come un battito d’ali. Navillera è proprio una di queste. Una di quelle opere che non si dimenticano facilmente, perché parlano al cuore e alla coscienza con la grazia umile di chi sa che non serve gridare per farsi ascoltare.
Tratto dall’omonimo webtoon sudcoreano creato da Hun e Jimmy, e portato in Italia da Gaijin (ReNoir Comics), Navillera è un manhwa che ho letto con le lacrime agli occhi e un nodo in gola. Non tanto per la tristezza – anche se di motivi per piangere ce ne sono molti – ma per la bellezza struggente e silenziosa della storia, per la dolcezza con cui si affrontano temi profondi, difficili, umanissimi.
La trama, di per sé, è semplice: Shim Deok-chul, un uomo di settant’anni in pensione, dopo una vita dedicata al lavoro e alla famiglia, decide finalmente di realizzare il sogno che ha sempre tenuto nascosto – danzare. Non “fare due passi”, non “provare qualcosa di nuovo”, ma imparare seriamente danza classica, con tutto ciò che comporta: disciplina, sforzo, dedizione, dolore.
Ad aiutarlo, seppur inizialmente con riluttanza, è Lee Chae-rok, un ragazzo di ventitré anni, ex calciatore con un passato travagliato, ora giovane promessa del balletto. La loro è una relazione che nasce per caso e diventa fondamentale. Un incontro tra generazioni, tra rimpianti e speranze, tra corpi che iniziano e corpi che stanno per finire. Tra chi ha avuto troppo poco tempo e chi ne ha ancora troppo da riempire.

Quello che mi ha colpito sin da subito nel manhwa è l’intimità del racconto. I volti sono tratteggiati con delicatezza, le emozioni passano attraverso sguardi, pause, silenzi. Non c’è bisogno di grandi discorsi: basta un gesto, una pagina vuota riempita solo da un’inquadratura silenziosa, per raccontare più di mille parole. E tutto, pagina dopo pagina, acquista il peso dell’essenziale: il tempo, la memoria, la malattia, la fatica, l’arte, la gentilezza. E soprattutto, il diritto di sognare, sempre. Anche quando il corpo non risponde più, anche quando il mondo ti dice che “non è normale”.
Perché sì, Navillera è anche questo: una riflessione potente – e a tratti spietata – sulla cosiddetta “normalità”. Cosa significa essere normali? Essere giovani? Essere uomini? Avere una famiglia? Un futuro? Cosa è concesso desiderare, a settant’anni, in un corpo che tutti danno già per finito? Deok-chul danza proprio contro tutte queste domande. Danza per sé, non per essere guardato, né per essere compreso. Danza per sentire che esiste, che è ancora in grado di scegliere, di imparare, di cadere e rialzarsi. La sua danza non è solo movimento: è un atto politico, un atto poetico, un atto di resistenza.
E accanto a lui, Chae-rok si trasforma. Da ragazzo smarrito e arrabbiato, incapace di trovare un senso a ciò che fa, a uomo che impara a vedere l’altro, a sostenerlo, a lasciarsi ispirare. Insieme, diventano l’uno lo specchio dell’altro: uno mostra che non è mai troppo tardi per cominciare, l’altro che non è mai troppo presto per cambiare strada.
Navillera parla anche di famiglia, di genitori e figli, di incomprensioni e silenzi, di ruoli che sembrano immutabili e che invece, a volte, si sciolgono come neve. E parla di arte. Di quella passione che arde anche quando tutto sembra spegnersi. Di quella fame di bellezza che può sopravvivere al dolore, alla frustrazione, alla paura.
Leggendo, mi sono ritrovato a riflettere su quanti sogni ho messo da parte per paura, per senso del dovere, per la voce insistente del “non è il momento giusto”.
E mi sono chiesto: se fossi io, a settant’anni, avrei il coraggio di iniziare qualcosa di totalmente nuovo?
Avrei la forza di sfidare lo sguardo degli altri, il giudizio, il peso degli anni?
Vorrei poter rispondere sì. Ma so che, in fondo, non è facile.
Ed è per questo che Navillera fa così male e così bene, insieme. Perché costringe a guardarsi dentro. A fare pace con i propri limiti. A ricordare che non è mai troppo tardi per inseguire la propria farfalla.